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martedì 2 febbraio 2016

Quando la meditazione si fa musica e danza

Tutte le tradizioni mistiche del mondo pongono l’accento sul grande potere del silenzio e del ritiro solitario per raggiungere l’armonia interiore. Tuttavia da sempre l’uomo ha posto grande importanza alla musica che ha sempre occupato un posto d’onore in ogni momento della sua vita quotidiana, nelle sue cerimonie, durante i suoi momenti di gioia e di profonda disperazione. Lungo tutta la sua storia l’uomo ha confermato il potere taumaturgico della musica . In Europa già Platone sosteneva che la musica cura l’anima e addirittura la considerava “filosofia suprema” perché è in grado di esprimere emozioni e Stati dell’animo che le sole parole non possono concettualizzare. Egli stesso scriveva che se è opportuno per l’uomo fare una buona e regolare attività fisica è anche doveroso prendersi cura delle proprie emozioni e della propria anima attraverso la musica che lui considera della stessa natura dell’anima. Altre tradizioni mistiche mettono in relazione la meditazione con la musica e la danza. Per la traduzione indiana il dio Śiva è considerato il grande danzatore cosmico. Come ben esprime Alain Daniélou nel suo libro “Śiva e Dioniso” ( 1980, Op. cit., p. 181) « La materia, la vita, il pensiero non sono che relazioni energetiche, ritmo, movimento e attrazione reciproca. Il principio che dà origine ai mondi, alle varie forme dell'essere, può dunque essere concepito come un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi, dai movimenti della danza. In quanto principio creatore, Śiva non profferisce il mondo, lo danza. » Śiva è anche chiamato Naṭarāja, il Re della Danza, e molte sono le rappresentazioni nella tradizione indiana che hanno come soggetto il Dio danzante. La più nota è quella di Śiva con quattro braccia all'interno di un arco di fuoco. La chioma del Dio è intrecciata e ingioiellata e le ciocche inferiori si sollevano nel vento. Indossa pantaloni aderenti ed è adorno di bracciali, orecchini, anelli, cavigliere e collane; una lunga sciarpa gli ondeggia attorno. È questa l'immagine più popolare, e corrisponde alla danza detta nādānta, quella che secondo tradizione Śiva effettuò a Chidambaram (o Tillai), nella foresta di Tāragam . Chidambaram era luogo considerato centro dell'Universo: il fatto che Śiva si trovi là simboleggia, nella corrispondenza col microcosmo, che il luogo in cui Dio danza è il centro dell'uomo, il suo cuore, e allora il messaggio simbolico diventa quello di liberare l'uomo dall'illusione e dalla sofferenza. La simbologia è quindi quella dell'eterno mutamento della natura, dell'universo manifesto, che attraverso la danza e l’armonia della musica Śiva equilibra con armonia, determinando la nascita, il moto e la morte di ogni cosa. Un’altra tradizione a me cara che pone molta importanza alla musica come mezzo di elevazione spirituale è quella del Sufismo in medio oriente. Nelle grandi civiltà del Medio Oriente la musica ha occupato un posto importantissimo nella concezione cosmologica dei popoli. Essa per il Sufismo esprime l’armonia del cosmo e viene considerata quintessenza della creazione e mezzo per compiere il proprio cammino verso Dio. Come ho già potuto scrivere in un articolo precedente tutti i i Sufi camminano verso Dio ma possono scegliere percorsi diversi ed alcuni di essi elevano la musica la danza e la poesia a tramiti per raggiungere la beatitudine. Tra di essi sicuramente Rumi ,grande poeta e mistico e il maestro Sufi che più esprime questa tradizione. La parola maqam viene usata nel sufismo, nel suo significato di “stazione”. Il lungo e faticoso cammino attraverso il quale il Sufi riesce a scrollarsi di dosso i veli e il fardello della materialità, a purificare se stesso fino ad avere un “cuore bianco e puro come la neve” (Rumi) che gli permette di avvicinarsi a Dio, è un percorso arduo e richiede tappe progressive, dette appunto “stazioni”. Il suono dell’aria, tra quelli dei quattro elementi cosmologici, è quello che si pone al di sopra degli altri e favorisce l’estasi; più in alto ancora c’è il suono stesso della Creazione, quello dell’etere, che tutto comprende ma che solo mente e cuore puri possono percepire. Nell’ascolto della musica non bisogna cercare l’emozione perché , non sono i sensi esteriori che devono prevalere ma quelli interiori. Come nelle mudra o posizioni dei meditanti di ogni tradizione anche per i Sufi ogni piccolo gesto assume una valenza simbolica importantissima, con l’accompagnamento del nay, il flauto di canna, dei tamburi, di cordofoni. Non si sentono solo gli strumenti ma la voce stessa dei Sufi che, quasi ipnoticamente, ripete la sillaba hu, Lui, Allah, a cui seguono quelle della professione di fede: , “Non c’è Dio all’infuori di Dio”. Così facendo, i Sufi riescono a proiettarsi in una dimensione spirituale e a percepire il suono etereo della Creazione, la voce ineffabile di Dio che l’umanità dimentica quando, nascendo, il corpo materiale imprigiona l’anima. Per concludere anche per una tradizione meditativa estrema come lo Zen il suono è un elemento di grande rilievo. Spesso il suono viene utilizzato nei koan (rompicapo senza senso concettuale) che i maestri assegnano ai discepoli per spingerli ad una soluzione non concettuale ma intuitiva e non duale. Famoso resta il koan di un maestro della scuola Rinzai che battendo le mani chiese : “se questo è il suono di due mani quale è il suono di una mano sola?” L'allievo in addestramento deve ripetere continuamente questo suono fino a diventare lui stesso il koan, penetrandone l'essenza profonda e riportando al maestro il risultato raggiunto attraverso la sua comprensione non concettuale. Ma senza scomodare i koan possiamo osservare come il tempo stesso nei monasteri Zen sia scandito dai suoni della campana che ne segnano l'inizio e la fine. “Il colore del picco il suono della valle tutto è la voce e la figura di Shakyamuni.” Dogen Zenji

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